“Francamente, a me la storia di Preiti, così come ce l’hanno raccontata,
non ha mai convinto. Un disadattato che decide di fare un atto
eclatante in segno di disperazione? No, non mi sembra proprio”. Parla
convinto Luigi Bonaventura, ex ‘ndranghetista di
spicco, reggente del clan Vrenna-Bonaventura di Crotone, che dal 2006 ha
deciso di collaborare con la giustizia. Parla convinto, eppure nella
sua voce non c’è arroganza: “Sia chiaro – precisa subito – che tutto
quello che dirò non lo dirò per volermi sostituire agli investigatori,
che fanno egregiamente il loro mestiere. Il collaboratore di giustizia
non è un mago che risolve i casi, o un professore che arriva a spiegare
come sono andate le cose. Il punto è che quando hai vissuto in una
determinata mentalità criminale fin dalla nascita, quando hai sparato e
ordinato di sparare, quando hai avuto a che fare per anni con dei corpi
riservati e azioni del genere le hai pianificate ed eseguite, certe
anomalie ti risultano più evidenti. Le annusi subito”.
Corpi riservati?
La ‘ndrangheta se ne serve moltissimo. Sono criminali non
necessariamente affiliati o organici all’organizzazione. Persone che
possono essere reclutate all’occorrenza per commettere attentati, e che
di solito sono pronti a morire nel corso di queste missioni. Persone
spesso disperate, ma molto preparate. Dei kamikaze, insomma. Ecco, a me
Preiti sembra rispondere perfettamente a questo identikit. E di certo le
sue origini potrebbero essere un’ulteriore conferma di questa teoria.
E perché?
Innanzitutto, so per certo che la famiglia Preiti è vicino ad
ambienti legati alla ‘ndrangheta. E poi non dimentichiamoci che a
Rosarno c’è da sempre una situazione un po’ particolare.
Si spieghi meglio.
Da sempre a Rosarno ci sono dei clan molto propensi a ricorrere alla
violenza e ad atti eclatanti. Clan che agiscono spesso autonomamente,
senza il consenso di tutta l’organizzazione. Diciamo che non sono stati
molto inquadrati. Però stavolta la cosa sembra diversa, e non a caso
Preiti non è partito dalla stazione di Rosarno, ma da quella di Gioia
Tauro.
Un segnale? O voleva semplicemente farsi riprendere dalla videocamera di sorveglianza?
Sicuramente lui sapeva che alla stazione di Gioia Tauro sarebbe stato
ripreso da quella videocamera. Ma qui il messaggio è un altro, e ben
più importante. Se io da Rosarno devo raggiungere Roma in treno, non ha
alcun senso che io vada in auto fino alla stazione di Gioia Tauro. Il
fatto che Preiti lo abbia fatto, significa che si voleva far sapere a
tutti che il suo gesto folle non era stato deciso solo dai clan di
Rosarno, ma aveva il consenso di tutta la mamma [nel
gergo ‘ndranghetistico, l’organo di controllo supremo
dell’organizzazione criminale, ndr]. Gioia Tauro è il centro del
mandamento della Piana: aver lasciato la macchina lì equivale ad
affermare che il vertice assoluto della ‘ndrangheta ha approvato.
Questo significherebbe che la ‘ndrangheta ha intenzione di
inaugurare una stagione di destabilizzazione? C’è un progetto preciso?
Più volte, dopo esser diventato collaboratore di giustizia, ho avuto
incontri con finti pentiti che descrivevano prospettive inquietanti. In
particolare, nel 2011, fui abbordato due volte da esponenti della cosca
De Stefano-Tegano, [le ‘ndrine che controllano Reggio Calabria, ndr],
che cercavano di reclutarmi e di corrompermi. Mi parlarono di un piano del terrore
che sarebbe stato messo in atto, un piano contro magistrati e forze
dell’ordine, teso a destabilizzare. E si vantarono di avere a
disposizione truppe di criminali pronte ad ammazzare e a farsi
ammazzare. Ecco, quando ho appreso dell’attentato di Preiti, non ho
potuto non ripensare a quegli incontri.
Ma perché l’idea che Preiti possa semplicemente essere un
disoccupato, magari anche mentalmente instabile, non riesce proprio a
convincerti?
In realtà è proprio se penso a Preiti come un disperato che i conti
non tornano. Se io non avessi un lavoro e non riuscissi ad arrivare a
fine mese, perché dovrei partire il giorno prima dell’attentato e pagare
un pernottamento in hotel, anziché prendere il treno la mattina stessa?
E poi c’è la pistola: se fossi in condizioni economiche così
disastrate, la prima cosa che farei sarebbe andare a rivendere una
pistola, comprata al mercato nero, che vale da sola almeno 1200 o 1300
euro. Senza contare che quella non è una pistola qualunque. Si tratta di
una 7 e 65 Pietro Beretta, modello A 35, usata già nella Seconda Guerra
Mondiale, e spesso data in dotazione alle forze dell’ordine. La canna è
facilmente estraibile: basta aprire il carrello, e con un colpo la si
fa uscire; ed è per questo che è comoda anche da sostituire, ad esempio
con una calibro 9 corto. È l’arma preferita dalla ‘ndrangheta,
che infatti quando vuole lasciare una firma, spara sempre con quel
modello lì, anche perché di fatto non si inceppa mai. Ha un solo
difetto: non è molto precisa. E questo la dice lunga sulle capacità di
questo Preiti, che va bersaglio quattro volte sparando sette colpi.
Un’efficienza incredibile: io con quell’arma ho sparato decine di
volte, e le assicuro che non è facile andare a bersaglio con tanta
precisione, soprattutto in una situazione così concitata come quella, e
soprattutto per uno che dice di aver mai sparato prima.
Poco credibile, in effetti.
E non solo: Preiti sapeva perfettamente che doveva sparare da vicino,
perché quel modello di Beretta non è precisa a grande distanza. E
sapeva anche, o almeno sospettava, che i carabinieri dovevano avere una
qualche protezione al torace, magari un giubbotto antiproiettile. E
guarda caso lui ne colpisce uno al collo e uno alla gamba. Una freddezza
pazzesca. Viene da chiedersi dove abbia imparato a sparare così bene.
Una cosa è indubbia: se vivi a Rosarno, non puoi certo metterti ad
esercitarti al tiro al bersaglio, perché è praticamente impossibile non
richiamare l’attenzione di chi, su quel territorio, ha il controllo
assoluto. E poi, ancora, perché, se sono incensurato, devo comprare
un’arma al mercato nero, con una matricola abrasa?
Ecco, perché?
Per un solo motivo: perché so già, fin dal giorno in cui la acquisto,
che quell’arma mi servirà per uccidere. Altrimenti non ha alcun senso:
Preiti era incensurato, poteva benissimo ottenere il porto d’armi e
comprare regolarmente una pistola, se davvero intendesse usarla per
difesa personale. Anche perché niente gli avrebbe vietato di
utilizzarla, un domani, per fare una rapina. I disperati fanno così. Non
comprano una pistola al mercato nero, tra l’altro con la matricola
abrasa.
Possibile che l’abbia cancellata Preiti stesso, la matricola,
magari con la punta di trapano che è stata ritrovata nel suo borsello?
Lo escludo. Non ci si inventa autodidatti per certe cose: punzonare un’arma è un lavoro da professionisti.
Soprattutto per fare in modo che, come in questo caso, a distanza di
settimane gli inquirenti non riescano a risalire alla matricola
originale: per lavori del genere si usano liquidi speciali, ci servono
attrezzature apposite e una certa manualità. Impossibile farlo soltanto
con una punta di trapano. Secondo me, ma questa è una mia ipotesi,
quella punta di trapano è stata messa lì per confondere le acque, per
sviare le indagini.
Nel borsello è stato trovato anche un cellulare.
Con una carta SIM intestata ad un extracomunitario. Gli appartenenti
alle organizzazioni criminali sono soliti ricorrere a questo sistema,
per rimanere invisibili e non lasciare tracce, mentre discutono di
traffici e di progetti.
Nelle interviste che hanno rilasciato, i familiari sembravano
sinceramente sconvolti. Erano molto lontani dall’immaginario comune
della tipica famiglia ‘ndranghetista.
Vero. Ma molto spesso, mi creda, quando fai quel mestiere lì, i tuoi
familiari non ti conoscono affatto. Soprattutto se sei un corpo
riservato. Tra l’altro sembra che lui sia uscito di casa senza il
borsello con cui poi è stato ritrovato davanti a Palazzo Chigi. Dove lo
ha preso? Chi glielo ha dato? Anche questo, a mio avviso, potrebbe
essere un indizio importante. E poi c’è la questione della cocaina. Se
davvero Preiti aveva quel vizio, è impossibile che non fosse in contatto
con ambienti criminali, specialmente se pensiamo che a Rosarno le
‘ndrine controllano anche lo spaccio in maniera capillare.
In molti potrebbero accusarti di alimentare, con questa sua
lettura dei fatti, il luogo comune, un po’ meschino, per cui tutti i
calabresi, in un modo o nell’altro, hanno a che fare con la ‘ndrangheta.
Non è assolutamente vero. La Calabria è piena di persone per bene,
onesti lavoratori. E lo stesso vale per Rosarno. Ma il punto è proprio
questo: nessuna persona per bene, nessuna persona che non sappia di
godere della protezione della ‘ndrangheta potrebbe anche solo pensare di
partire da Rosarno e fare un atto del genere. Significherebbe
condannare a morte non solo se stessi, ma anche la propria famiglia.
Ma qual è il segnale che voleva lanciare la ‘ndrangheta, allora?
Difficile dirlo. Però sicuramente un messaggio è arrivato chiaro: il
fatto che Preiti, subito dopo esser stato immobilizzato, ha dichiarato
che aveva intenzione di far fuori un uomo delle istituzioni, significa
che la ‘ndrangheta ha lanciato un segnale a tutta la politica.
Secondo me, Preiti è andato diritto contro il bersaglio che aveva
designato: lui voleva ammazzare i carabinieri, quella mattina. Ma è
evidente che non era un segnale di odio contro le forze dell’ordine; è
alla politica che era diretto, quel segnale.
Un attentato politico, quindi?
Be’, certamente dei risultati li ha ottenuti subito, visto che molti giornali hanno immediatamente collegato quell’atto col clima di odio fomentato ad arte da un certo movimentismo politico. Ma preferisco comunque non entrare direttamente in questi risvolti.
Quest’attentato arriva poche settimane dopo la lettera
inviata a Nino De Matteo, nella quale si dice chiaramente che non si può
mettere il Paese in mano a comici e froci. Potrebbe essere il segnale
che la ‘ndrangheta, e le altre organizzazioni criminali, vogliono
ottenere qualcosa dallo Stato?
Guarda, quando la ‘ndrangheta alza il tiro è sempre perché vuole
arrivare ad aprire una trattativa. Che ormai è una parola abusata.
Quando si parla di trattativa si pensa spesso, perché così ci hanno
abituato a fare, ad un grande tavolo in cui tutti si riuniscono per
prendere chissà quali accordi. In Italia la trattativa si vive ogni
giorno, tra lo Stato e le mafie: è fatta spesso più di silenzi che di
parole, si regge su taciti accordi. Quando si spara, di solito, è perché
si vuole arrivare ad una rinegoziazione.
Intervista realizzata il 15 maggio 2013
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